Cuori a perdere


Mostra personale di Gabriella Maldifassi 

 

“Cuori a perdere” potrebbe far pensare ai più ad un titolo malinconico, romanticamente 

triste, invece racconta una storia di rinascita, di ritorno alla vita, la vita bella e vera che, a 

volte, mette alla prova gli animi più sensibili. 

Il cuore non è qui quel semplice, e forse un po’ banale, simbolo di un amore platonico e 

perlopiù giovanile, ma nemmeno dell’amore più profondo e maturo che si costruisce con 

l’esperienza di una vita. 

Il cuore, soggetto di questa mostra, ci racconta come l’animo umano sia capace di reagire 

alla vita e al mondo, cambiando forma, cambiando colore, materia e addirittura uso, ecco 

perché cuori a perdere e non a rendere. Gli animi più forti affrontano le diverse fasi della 

vita con la capacità di riadattarsi alle nuove situazioni che sono venute a crearsi. 

Certo, ci vuole del tempo, ma nulla si crea e nulla si distrugge.. tutto si trasforma, anche il 

cuore. 

Di queste trasformazioni, Gabriella Maldifassi ne ha fatto la sua arte. 

I suoi cuori, frutto di un uso sapiente della cartapesta, non sono mai simmetrici, sono 

lunghi e rinsecchiti, morbidi e gonfi, neri come la pece o candidi come la neve, ma 

sempre simbolo di un preciso attimo di vita vissuta. 

Inoltre, per sottolineare la nuova vita a cui ogni cosa e ogni individuo può aspirare, sono 

spesso realizzati con materiali di riciclo che vengono ricoperti da preziose carte per 

assurgere ad un destino ancora da scrivere; la bellezza è celata però in quel piccolo 

dettaglio che rimane scoperto dalla bella coltre per raccontare la sua storia precedente. 

I cuori che Gabriella Maldifassi presenta possono rappresentare la realizzazione di quella 

che, nella cultura giapponese, è chiamata bellezza sabi, ossia, come dice Galliano, la 

capacità di cogliere nella consunzione, la tensione metafisica fra il relativo e l’assoluto, tra 

il caduco e l’eterno; ma in sabi c’è anche una sfumatura di solitudine come qualità 

radicata nella percezione dell’individualità ed evanescenza della vita umana, tutte 

consapevolezze che appartengono all’autrice. 

Altro elemento che Gabriella Maldifassi ha in comune con la cultura giapponese è la 

capacità di saper valorizzare le fratture che la vita ci impone: in Giappone questa tecnica 

è chiamata Kintsugi e consiste nell’utilizzo di oro colato al posto della colla per 

ripristinare un oggetto rotto, in questo modo non viene occultata una integrità perduta, 

ma viene valorizzata la capacità di ricomposizione. 

L’autrice ci accompagna in questo cammino per comprendere che la vita è rottura ed 

integrità al tempo stesso, una ricomposizione eterna e continua che porta ogni individuo 

ad una precisa consapevolezza di sé.

 

Chiara Milesi

                                      Atarassie

 

 

Nelle Atarassie di Gabriella Maldifassi appare evidente il percorso emotivo dell'artista che decide, attraverso la scelta dei materiali e un codice dei colori del tutto personale, di mettersi a nudo.

A prima vista sono proprio tutte le sfumature, moltiplicate dalle ombre dei pieni e vuoti, a catturare lo sguardo, a creare affinità o dissensi per l'uso che ne viene fatto, ma basta prestare attenzione ai supporti per andare oltre, più nel profondo.

Il tessuto delle sculture da parete ha valenze archetipe e simboliche; scava nel femminino e ogni piega è un anfratto dell'anima, mediatrice tra le profondità dell'inconscio ed il Sé che cristallizza tale materia in forma definita.

I tessuti che l'artista usa, non sono semplici pezzi di tela vergine, al contrario, sono vissuti, a volte esausti e appartengono al quotidiano: lenzuola di famiglia, sciarpe, rimanenze di abiti, sino agli abiti veri e propri. Nel simbolismo archetipo junghiano, gli indumenti rappresentano la persona, la maschera, e il vestire è quel fattore della psiche che dispone a rappresentarsi con una propria immagine. È apparire ma anche essere. Gabriella Maldifassi immette nelle sue opere le emozioni, le idee, i valori profondi che sono suoi. O che lo sono stati. Che possono essere osservati con serenità e con il necessario distacco per proseguire nella propria crescita. Nel corso della vita si collezionano tante personae e questo consente di poter essere qualunque cosa, in qualsiasi momento. E indubbiamente l'artista ama appassionatamente questo tipo di collezione: è ciò che la rende libera nella sperimentazione e che -dice- non sa dove la porterà.

La rappresentazione paradigmatica del vissuto diventa dunque, nelle sue opere, l’avamposto esistenziale del “divenire” dal quale, travalicando i limiti effimeri del tempo, muoversi alla ricerca di nuovi imprevedibili itinerari dell’anima.

E’ questo “humus” vitale imperturbabile che alimenta, senza soluzione di continuità, la ricerca esistenziale di Gabriella Maldifassi, continuamente protesa alla realizzazione di creazioni artistiche sempre più sorprendenti.

 

 

 

Antonello Pilloni

per New express Art- 521 west th street N.Y. 10001 U.S.A.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“ELLEBORO NERO”

Mostra di Gabriella Maldifassi a cura di Leonilde Carabba

9 giugno-10 luglio 2016

“In India si brucia accanto al letto delle partorienti per facilitare il parto

e perché lo Spirito degli Dei entri nella Mente del Neonato”

.............

“Potete trovare da soli la magia che state cercando.

Potete guarire da soli da qualunque cosa e diventare poi guaritori per gli altri.

Siete già sulla strada per la magia.

Inoltratevi in questo spazio con il nostro aiuto. In fondo non è che un lungo viaggio.”

 

Olga Kharitidi: Il Maestro dei Sogni

 

 

            Storia inconsueta di una guerriera gentile. Gabriella rifugge dallo stereotipo dell'artista romantico angosciato e furente. Il suo approccio alla vita è godurioso e gioviale, non a caso la sua creatività si è espressa magistralmente anche nell'ambito del cibo. Vedi la ricerca storica e l'elaborazione di una ricetta rinascimentale commercializzata dalla Pasticceria Dante di Vigevano con il nome “Dolceriso del Moro” e altre imprese interessanti che potrete vedere sul suo sito.

            Molte delle sue opere sono attimi di impermanenza fissati in una forma. E se Icaro avesse potuto plastificare le sue ali? Il desiderio di spaziare nel tempo senza tempo qui è presente imperioso. È gentile Gabriella e a prima vista anche le sue opere lo sembrano, ma quando vedi “Elleboro Nero” non puoi non calarti nella ciclicità della vita. Non puoi evitare di immaginarti, novella Arianna, correre sulla spirale d'oro e come i bambini pensare che se resti solo sull'oro riuscirai a sfuggire alla Morte. Così noi percorrendo la spirale non ricordiamo più se siamo le partorienti o il partorito ed in effetti non ha importanza perché la verità è che siamo tutti e due. Così come siamo felici e infelici, guerriere e vittime perché non mettiamo più l'altro fuori di noi e se non c'è più ruolo od opposizione si entra nella Libertà. La libertà cercata da Icaro diventa ora reale.

            Esprimere se stesse è affermare il proprio Potere. Gabriella non è un'artista solitaria, fa parte del gruppo Ondedurto.arte, che crea nuovi spazi per incontrarsi e discutere di tutto ciò che ritengono significativo perché come, giustamente, dice Angela Vettese nel suo libro “Artisti si diventa” all'inizio il crescere assieme a volte può essere frustrante, ma è necessario e stimolante.

            Il lavoro di Gabriella rinnova l'immaginario. Gli abiti pur mantenendo una bellezza arcana diventano urlo di libertà. L'oro porta l'eterno nel quotidiano e così lo nobilita e lo fa assurgere a valore sacrale. L'argento lunare ricorda lo scorrere delle maree e l'eterna alternanza di yin e yang, di azione e non azione, di passato e presente. L'Opera è valida e guardata con attenzione darà ad ognuno quello che cerca. È in sintesi un lavoro sciamanico; non a caso in apertura ho citato Olga Kharitidi, famosa sciamana siberiana.

 

LeoNilde Carabba

 

 

PIETRE BENDATE E CAREZZE DI FILO SPINATO

Alle prigioni del Castello un percorso artistico nelle emozioni

 

Alla vigilia della primavera, la luce del pomeriggio solleva una polvere dorata e la trecentesca strada coperta che dall'alto digrada verso la Rocca Vecchia non è mai stata così bella. Da lì si scende per scale anguste a gruppi di venticinque visitatori, fino a penetrare nello stretto corridoio rettilineo che si affaccia sulle sette celle, ora abitate da coppie di opere la cui natura rimane come sospesa tra la scultura e l'installazione. E sono stazioni di una laica via crucis, scandite da cartigli evocativi: Il battito, In viaggio, Legami, Simulacri, Linea di confine...
Subito colpisce l'amalgama sorprendente tra le sensibilita degli artisti. Quella più scultorea dei lavori di Giulio Orioli, la sua compattezza di stele, addolcita dalla porosità del marmo cesellato. I sui fondi di ferro, corruschi e pesanti come bracieri etruschi. Le pietre bendate a celare invisibili ferite dell'inanimato. Dell'inarticolato. Del silenzio.
Più vicini al versante concettuale dell'opera-installazione gli esiti di Gabriella Maldifassi, tra volute di tessuti e spirali di oricalco color avorio e oro, con le reti aeree come leggeri e cinetici "mobiles", le impronte di spiagge visitate dai naufragi, le curve carezze di filo spinato sui veli delle spose.
Il pensiero va alle illusioni ed alle disperazioni della nostra epoca. I lager legali e "governativi" dall'altra parte del Mare Nostrum. I tragici e violenti malintesi nell'amore, nella famiglia, nel grado zero della non-cultura di massa. Il disagio di un'intera civiltà, nella quale la nevrotica tranquillità di pochi è adagiata sopra la sofferenza di molti. 
Eppure l'arte non si limita mai a rappresentare il figurabile. Anche in questa circostanza, non può che provare a raffigurare ciò che è senza figura. "La carne che non si vede mai, il fondo delle cose" - come lo chiamava Lacan. Il segreto assoluto - e con esso anche la vocazione del sacro, scandito in una liturgia dolente e profana dalle catacombali sonorizzazioni postmoderne delle musiche eseguite in loco da Mario Eugenio Cominotti.
Certo, qui l'arte non possiede più neanche la lucente bellezza degli oggetti ideali. Nemmeno il gioco onirico e grottesco degli "objets trouvés" surrealisti. Solo la dimensione scabrosa delle cose, ossa tatuate, transistor tra i rifiuti. I trenta denari sparpagliati fuori da un vaso abbandonato. Come ancora succede, l'arte guarda il proprio tempo e scorge il riflesso cieco dell'indovino Tiresia, di cui Sofocle diceva: "Non può più parlare, ma può cantare parole incomprensibili".
Perché le scarpe incolonnate in cammino, loro - pallidi calzari vuoti - disabitati dagli umani per i quali non c'è più sentiero possibile, soltanto muri? Perché il sorriso di Antigone, nell'estremo sguardo rivolto indietro, alla sua città, prima dell'esecuzione?
Come sempre accade, l'arte osserva il presente, lo arde in un solo gesto senza più passato e senza futuro, nell'atto che Hegel chiamava l'"immediato svanire". Abbandonato anche - in una sorta di oltrepassamento - lo stupore della tecnica, essa ritrova la sua scabra disciplina circumnavigando il centro vuoto di tutte le cose. Quello che la religione si prodiga di colmare di commozione e la fede di pietas. Quello che la scienza si sforza di suturare con la ragione.
Che cosa resterà dell'opera d'arte? In una delle sue rarissime risposte, Alberto Burri si schermiva: "Nulla, rimane solo il dolore". Ma nell'attesa di incontrare, di fuori - nelle prigioni della mente - la piena dilagante dell'inautenticità, che fascino qui, tra queste mura, la nuda sincerità del vuoto.

Roberto Comelli